lunedì 27 agosto 2012

29 Maggio 2012, ore 09.00..


Non è necessario aggiungere altre parole per intendersi con chi, quel giorno, si trovava da queste parti.
Forse queste sono tracce di un passato ancora troppo recente per noi, ma fanno parte di un evento che a suo modo, si è ormai insidiato tra quelli che, tra qualche anno, saranno chiamati ricordi
.


Seppur siano stati riportati (fortunatamente) danni nettamente inferiori rispetto ai paesi emiliani, il terremoto del 29 Maggio 2012 ha generato una profonda ferita nel paese e nei suoi abitanti.
Per documentare cosa è avvenuto abbiamo deciso di riportare alcune fotografie


Messa in sicurezza del palazzo che ospita l'ufficio postale

La volta interamente crepata dell'ex Infermeria

Il soffitto crollato della Biblioteca Monastica


Crollo nel soffitto della Biblioteca Monastica



Portale in stucco crepato nell'ex infermeria monastica
 
Campanile di San Floriano senza i pinnacoli


Rimozione per la messa in sicurezza dei pinnacoli dal campanile
 
Tre dei pinnacoli del campanile di San Floriano messi in sicurezza,
il quarto è crollato durante il terremoto.



Campanile di San Floriano messo in sicurezza coi tiranti
 
Messa in sicurezza del voltone tra Piazza Matteotti e Piazza Folengo

Messa in sicurezza del tiburio della Basilica
 

venerdì 17 agosto 2012

Fiabe Mantovane..


Tra i tanti luoghi in cui possiamo trovare tracce del nostro passato, non dobbiamo dimenticare le fiabe. Tramandate di generazione in generazione solo oralmente, sono state raccolte nel volume "Fiabe Mantovane" nel 1879 da Isaia Visentini.



Come spiega lo stesso autore nella prefazione al libro: «Ero in Mantova da qualche anno, quando a caso mi venne udita una fiaba da un ragazzetto, a cui l'aveva contata la nonna. Rimasi colpito perché in essa io trovavo non lontane somiglianze con altre da me lette in raccolte straniere. Tosto, senza perder tempo, con un certo entusiasmo - lo devo confessare - col mezzo specialmente de' miei giovani scolari, ne raccolsi un duecento circa da tutte le parti della provincia mantovana.» Queste duecento, furono poi opportunamente selezionate e ridotte a cinquanta dallo stesso Visentini, onde evitare le varie e tante versioni riportanti gli stessi temi e motivi. Nello scegliere i testi, Visentini selezionò attentamente il numero sufficiente a fornire una panoramica completa del patrimonio fiabesco tipico della zona presa in esame.

Ed ecco qui di seguito alcune di queste fiabe:




           LA MERLA (i giorni più freddi dell'anno)

Non è una fiaba ma fa parte della tradizione mantovana.
Ci sono molte leggende sulla nascita del termine che indica i giorni più freddi dell'anno, ma forse quella più curiosa è proprio quella ricordata nel detto mantovano " La merla la pasà al Po".
L'Arrivabene nel suo vocabolario narra: 
"Un Gonzaga , signore di Mantova, dovendosi recare oltre il Po per affari pressantissimi nei tre ultimi giorni di Gennaio, fece apparecchiare la vettura ed attaccarvi sotto una mula detta Merla a cagione della prodigiosa sua rapidità.
Giunto però a Borgoforte, il cocchiere riconobbe il fiume tutto ghiacciato, ma vedendo il padrone profondamente addormentato, credette suo dovere tentare di varcarlo, onde potessero aver compimento gli affari per cui eransi mossi.
Compiuto felicemente l'arrisciato valico, si rimise in via, se non che, poco dopo, svegliatosi il Gonzaga, chiese quanto mancasse ad arrivare al Po. Sorrise l'auriga e rispondendo: La merla l'ha pasà al Po! gli narrò l'occorso. Tanto fu il terrore del Gonzaga che, appena pose piede a terra, onde punirlo d'aver posto a tanto pericolo la sacra sua persona, graziosamente si degnò di farlo impiccare."  


LA VECCHIA

Dovete sapere che una volta c'era una vecchia brutta, sdentata, pareva una strega. Era venuta al mercato con un sacco per comprare un porcellino.Un ragazzo, alto un piede, ma più furbo del diavolo, le va vicino e facendo mille smorfie comincia a canzonarla: "Ah! Siete qui brutta strega a comprare un porcellino?" la vecchia per un pò sopportò pazientemente poi, voltasi, lo rimproverò dicendo: "dov'hai imparato sconcia creatura a sbeffeggiare i vecchi? Guarda bene che se continui te ne farò pagare il filo". Queste parole non fecero che accendere vieppiù nel monello la voglia di schernir la vecchia. Finchè questa, perduta la pazienza, lo piglia per il collo, lo caccia nel sacco e poi s'avvia per andarsene a casa sua. Strada facendo, le convenne fermarsi presso una sua comare, e depose per poco il sacco. Il ragazzo, colto il tempo, slaccia il sacco, vi caccia entro una grossa pietra e se la svigna di corsa. La vecchia torna al sacco e se lo reca in spalla e borbotta "come sei pesante, birichino, ma vedrai ben presto ciò che si guadagna a deridere i vecchi".
Giunge a casa e dice alla figlia " Vieni, figlia mia, aiutami a bastonare un bricconcello, ch'è qua chiuso nel sacco.". La giovane viene, s'apre il sacco e trovano in cambio del ragazzo una pietra. "Ah! Me l'ha fatta il briccone! Mi son fermata per via e m'è scappato. Ma se t'agguanto un'altra volta, caro mio, non mi scappi no, in verità".
Il giorno dopo la vecchia torna al mercato col sacco. Il ragazzo la apposta e tirandole la sottana, grida: "Ah! siete qui brutta vecchia a comprar il porcellino? Ma com'era pesante quello d'ieri, non è vero?" e la vecchia "Lasciami birichino, guarda che se ti colgo non mi scappi più!". Eran parole gettate al vento, chè il monello le era sempre attorno, sbeffeggiandola con mille boccacce. Finchè la vecchia colto il momento lo agguantò per il collo e lo cacciò nel sacco. Difilata si mette in via per tornar a casa. Trovo ancora la comare e la voglia di fare quattro chiacchiere la vince, s'assicura prima che il sacco è ben chiuso e poi lo posa sulla via.
Il ragazzo, che non dormiva, si libera dal sacco e pigliato un gatto lo caccia entro e se ne va per i fatti suoi. La vecchia torna poco dopo al sacco, sente moversi dentro e se ne va borbottando: "Questa volta non mi sei mica scappato, furfante, aspetta e te ne accorgerai!" giunta a casa dice alla figlia " metti sul calderone pieno d'acqua e, quando questa è bollente chiamami chè ci cacceremo entro questo diavolo di ragazzo".
Quando l'acqua alzò il bollore pigliano il sacco, lo accostano al calderone, l'aprono e schizza fuori il gatto. Questo era arrabbiato e s'avventa al viso della vecchia e la graffia e la morde. La vecchia tutta tremante per la rabbia e stringendo i pugni grida: "Ah!  Me l'ha fatta ancora. Colpa mia che mi son femrata a discorrere con la comare. Ma se lo colgo un'altra volta, chè lo coglierò di certo, voglio vederla io se mi scappa".
Il giorno dopo torna al mercato col sacco. E il ragazzo le ronza attorno sbeffengiandola. "Siete qua brutta strega a comprar il porcellino?Come siete bella! Pare che un gatto v'abbia graffiato e morso il viso!". La vecchia questa volta tace, sopporta le sbuffonate del birichino con pazienza. Però un momento che se le era accostato un pò troppo, lo piglia per il collo e lo caccia nel sacco, e se ne va. Incontra la comare, la saluta e passa oltre. Quand'è a casa dice alla figlia: "Metti al fuoco il calderone e appena l'acqua bolle chiamami che questa volta c'è il monello! Vuoi vederlo?" scioglie il sacco e ne cava tutto tremante il ragazzo, e per maggiore sicurezza lo lega bene stretto al piede d'un tavolo. Poi esce per le sue faccende. Anche la ragazza esce un momento per la legna ma chiude l'uscio perchè il briccone non fugga.
Il ragazzo quando si vede solo, piano piano si slega e fugge per una finestretta attraverso i campi. Quando le due donne lo vedono darsela a gambe, si mettono le mani nei capelli e gridano quanta voce avevano " Dalli, dalli, piglialo!" ma potevano gridare quanto volevano, chè il ragazzo l'hanno ancor da pigliare e la vecchia per la stizza per poco non andò al mondo di là.

GAMBARA

C'era una volta un re, che aveva perduto un anello di gran prezzo. Cerca di qua, cerca di là, non si trova. Onde mette fuori un bando che se un qualche astrologo gli sa dire dove può essere, avrà una buona ricompensa. Un povero contadino, chiamato Gàmbara, aveva sentito del bando. Non sapeva né leggere né scrivere ed era poverissimo, e si mise in capo di voler essere egli l'astrologo che trovasse l'anello del re. Si mette dunque in cammino e giunge alla città e si presenta al re, al quale dice: "Sappia la maestà vostra che io sono un astrologo, sebbene mi vede in così povero arnese. So d'un vostro anello ch'avete perduto, e io m'ingegnerò, studiando, di sapere dove si trova. "Va bene," disse il re, "e quando l'avrai trovato, che ti dovrò dar io in ricompensa?" "Questo stia nella vostra discrezione, maestà." "Va pure, studia, e vedremo che astrologo sarai." Fu condotto in una stanza, nella quale doveva star rinchiuso a studiare. Nella stanza non c'era che un letto e un tavolo e su questo un gran libraccio, e penna, carta e calamaio. Gàmbara si mise a sedere al tavolo e non faceva che scartabellare il librone e scarabocchiare la carta, di forma che i servi, che gli portavano là dentro da mangiare, lo avevano in concetto di grand'uomo. Erano stati essi i ladri dell'anello, e dalle occhiate severe, che il contadino lor dava ogni volta ch'entravano, cominciarono a temere d'essere scoperti. Le riverenze che gli facevano erano infinite e non aprivano bocca senza chiamarlo: Signor astrologo. Gàmbara, che, se non era letterato, però, come contadino, era malizioso, subito s'immaginò che i servi dovessero sapere dell'anello, ed ecco come venne a confermare il suo sospetto. Già da un mese si trovava chiuso nella stanza, scartabellando il suo librone e scarabocchiando, quando venne a trovarlo la moglie. Egli le disse: "Nasconditi sotto il letto, e quando viene un servo, tu di': «E uno»; quando ne viene un altro, tu di': «E due», e cosi via." La donna si nasconde. Vengono i servi col pranzo e, appena entrato il primo, la voce di sotto il letto dice: "E uno"; entra il secondo, e la voce: "E due"; e così di seguito. I servi rimasero sbigottiti all'udire quella voce, che non sapevano da dove uscisse, e si strinsero l'un l'altro. Uno disse: "Ormai siamo scoperti; se l'astrologo ci accusa al re come ladri, siamo spacciati." "Sapete che dobbiamo fare?" dice un altro. "Sentiamo." "Dobbiam presentarci al signor astrologo, e confessargli apertamente che siamo noi i ladri dell'anello, e pregarlo che non ci tradisca, e gli regaleremo una borsa di danaro. Siete contenti?" "Contentissimi." E così di concordia se n'andarono dall'astrologo e, fattogli un inchino maggiore del solito, uno di loro cominciò a dire: "Signor astrologo, voi vi siete ormai accorto che fummo noi i ladri dell'anello. Noi siamo povera gente, e se ne parlate al re, siam perduti. Sicché vi preghiamo di non tradirci e in cambio prendete questa borsa d'oro." Gàmbara prese la borsa e poi aggiunse: "Io non vi tradirò, ma voi dovete fare quanto vi dico, se volete salva la vita. Prendete l'anello e fatelo inghiottire a quel tacchino che è laggiù nel cortile, e poi lasciate a me il resto." I servi furono contenti di far così, e fatta una grande riverenza se n'andarono. Il giorno dopo Gàmbara si presenta al re e gli dice: "Sappia la maestà vostra, che io, dopo d'aver sudato più d'un mese, son venuto a sapere dov'è l'anello smarrito." "Dov'è dunque?" domanda il re. "Un tacchino se l'è inghiottito." "Un tacchino? Bene, vediamo." Si va per il tacchino, si sventra, e gli si trova nelle viscere l'anello. Il re, meravigliato, dà una gran borsa di danaro all'astrologo, e lo invita a un pranzo. Al pranzo c'erano conti, marchesi, principi, baroni, insomma, tutti i grandi del regno. Fra le altre pietanze fu recato in tavola un piatto di gamberi. Bisogna che i gamberi allora fossero cosa ben rara, perché solo il re e pochi altri sapevano il loro nome. Voltosi al contadino, il re gli disse: "Tu, che sei astrologo, dovresti sapermi dire come si chiamano questi che son qui su questo piatto." Il povero astrologo era ben impacciato e, quasi parlando a sé, ma in modo che gli altri lo sentirono, brontolò: "Ah! Gàmbara, Gàmbara, dove sei giunto!"
Nessuno sapeva ch'egli aveva nome Gàmbara, e perciò si alzarono tutti e lo acclamarono il più grande astrologo che ci fosse al mondo. E si fece un gran pasto e un gran pastone e a me han gettato un osso in un gallone.

           SANGUE DI PESCE


C'era una volta un pescatore tanto povero che a stento poteva vivere, e sì non aveva che la moglie da mantenere. Pareva che il diavolo lo perseguitasse, poteva gettar le reti quanto voleva, non tirava su che pochi pesciatelli tanto da non morir di fame. Stava quasi per darsi alla disperazione, quando un giorno andò al mare, gettò la rete e poi cominciò a tirarla su. Gli pareva questa volta di fare molta più fatica delle altre; e tira e tira, la rete è su, e dentro c'è un pesce di così smisurata grandezza, che il pescatore, fuori di sé per la gioia, disse: "Oh! Finalmente uscirò di stento, questo pesce mi frutterà centinaia di lire." Mentre pensava alla sua fortuna, un'altra maraviglia venne a sorprenderlo. Il pesce parlava e diceva: "Tu non m'ucciderai, non è vero, buon uomo?" "Che non t'uccida, caro il mio pesce?" risponde il pescatore, "sarei ben gonzo. Senti questa, mi capita in mano la fortuna, e me la lascerò scappare anzi per far piacere a un bel pesce." "Te ne prego, sii buono, lasciami andare; ti darò una ricompensa tale che sarai contento. Sappi, buon uomo, che io sono il Padre dei pesci, e se tu mi salvi, farò si che le tue reti saranno sempre piene, e tu camperai lautamente." "Di' tu davvero?" domandò il pescatore. "Davvero, e te ne do parola d'onore," rispose il Padre dei pesci. "Ebbene, e io ti lascio." Aperse la rete e il pesce se n'andò libero. Da quel giorno in poi il pescatore non gettava le reti che non le tirasse su con stento, a tale che in poco tempo da povero ch'egli era cominciò ad arricchire, pur non lasciando il mestiere.
Un giorno getta la rete, e non tira su ancora il Padre dei pesci! Dice il pescatore: "Questa volta non ti lascio andare. Sarei ben pazzo se lo facessi." "Ingrato," disse il pesce, "adesso che ti sei fatto ricco per opera mia, adesso mi vorresti ricambiare con la morte. Ritorna in te, e sii quell'onesto pescatore che sei sempre stato. Salvami la vita, e io ti farò ricco il doppio, il triplo di quello che sei adesso." Il pescatore si commosse, e lasciò andare il Padre dei pesci. Aveva egli una moglie assai curiosa, la quale aveva visto il marito sempre più arricchirsi di giorno in giorno e non sapeva come ciò avvenisse. Era sempre attorno al buon uomo per cavargli il segreto, e il pescatore, finché potè, resistette; finalmente, vinto dalle preghiere della donna, le raccontò per filo e per segno la storia del Padre dei pesci. Alla donna la storiella non parve vera e disse al marito: "Senti, tu vuoi ridere alle mie spalle, e mi vieni fuori con certe cose che non le crederebbe un bimbo. Guardati bene, la gente comincia a mormorare delle tue ricchezze. Io certo non sarò quella che ti faccia del male, che mi darei la zappa sui piedi; però, o mi dai altre ragioni del tuo arricchire, o, tirata dal demonio, potrei giocarti, contro mia voglia, un brutto tiro." Rispose il pescatore: "Eppure la cosa sta appunto come io te l'ho detta; se non la vuoi credere, non so che farti, peggio per te." "Ebbene," replicò la donna, "giacché insisti nel volermi sbeffeggiare, fa' ch'io veda questo famoso Padre dei pesci, e allora me ne starò cheta." Bisognò che il pescatore promettesse quanto quella voleva. Volle fortuna che proprio il giorno dopo, gettando le reti, tirasse su il Padre dei pesci. Questa volta non valsero le preghiere e le promesse, il pescatore raccontò la storia della moglie e il suo pericolo. Per cui il pesce, senza più pregare per la vita, disse all'uomo: "Vedo che ormai mi conviene morire. Io t'ho fatto del bene e, se ora m'ascolti, intendo fartene anche morendo. Ti prego dunque: quando tu m'hai sventrato, getta le budella nel mare, e io risusciterò; già per te non valgono nulla. Poi del mio sangue ne darai tre gocce a tua moglie e ti farà dono di tre bei bambini; tre gocce le darai alla tua cavalla e questa ti farà dono di tre bei puledri; e poi tre gocce le darai alla tua cagna e ti farà dono di tre bei cani. Non basta, devi versarne ancora tre gocce nel tuo giardino, e vedrai a suo tempo uscirne tre taglienti spade. Il resto del sangue tu lo porrai in tre ampolle, e sopra ciascuna scriverai il nome di uno dei tuoi figliuoli. Mettili in collegio, questi, già che sei ricco, e che v'apprendano tutto ciò che si conviene ai giovani signori. E quando saranno in età da correre il mondo, da' a ciascuno un cavallo, un cane e una spada, e lasciali andare alla ventura. Ogni giorno tu guarda le ampolle e, fino a che il sangue sarà bello rosso, sta pur con l'animo tranquillo, ciò vuol dire che i tuoi figli sono fortunati nei loro viaggi. Se invece il sangue di un'ampolla comincia a intorbidirsi, vuol dire che il figlio, il cui nome è scritto sopra di essa, si trova in pericolo. Se farai quanto ti ho detto, te ne chiamerai contento." Il pescatore fece né più né meno di quello che gli aveva detto il Padre dei pesci, ed ebbe tre figli, tre cavalli, tre cani e tre spade. Fece educare i figli in un collegio e, quando furono grandicelli, li chiamò a sé, e disse al maggiore: "Eccoti un cavallo, un cane, una spada e una borsa di danaro, e mettiti alla ventura per il mondo, che il ciel ti benedica." Il ragazzo montò a cavallo, e via. Cammin facendo udì che lontano lontano era tenuta come schiava in un palazzo incantato la figlia di un re. Disse il giovane: "Più bella avventura di questa non mi poteva capitare; se libero questa ragazza, la fo mia sposa." Cammina e cammina, giunge a un crocicchio e non sapeva quale delle vie prendere. Vede una vecchierella che gli stende la mano e gli chiede l'elemosina. Il giovane s'accosta e le dà alcune monete. La vecchia domanda: "Dove andate, buon giovane?" "Vo a liberar la figlia di un re, che è schiava di un drago in un palazzo incantato." "Dio ve ne guardi; è un'impresa che ha condotto tanti altri alla perdizione." "Ma io sono coraggioso, e certo riuscirò." "Va bene, ma ascoltate lo stesso il consiglio d'una povera donna, quale son io. Il palazzo incantato, al quale voi andate, ha un cancello di ferro tutto arrugginito, dietro a cui sta un furioso mastino, che s'avventa contro chi gli si avvicina. Voi prendete dell'olio e del pane, e forse riuscirete nell'impresa." Il giovane fece come gli raccomandò la donna. Cammina, cammina, arriva al palazzo incantato. Quando è vicino, gli esce incontro una brutta strega gridando: "Cavaliere, cavaliere, dove te ne vai?" "Vengo a liberare la figlia del re." "Ebbene, metti al guinzaglio quel cane, altrimenti non entrerai." Il giovane scende da cavallo e mette al guinzaglio il cane. Ma già la vecchia gli è sopra, lo tocca con la bacchetta magica, e in un punto il giovane, il cavallo e il cane rimangono di sasso.
Il pescatore ogni giorno guardava le tre ampolle del sangue. Un giorno s'accorge che il sangue dell'ampolla, su cui era il nome del figlio partito, è tutto torbido. Disperato, chiama i due figli, e dice loro: "Ahimè! Vostro fratello, o è morto, o di certo si trova in gran pericolo." "Non vi disperate, padre," dice il mezzano, "datemi cavallo, cane, spada e danaro, e io andrò in cerca di lui, e prometto di salvarlo." Il padre lo abbracciò e baciò e gli diede quanto domandava.
Il giovane monta a cavallo; trova nel crocicchio la vecohietta. Le fa l'elemosina, per suo consiglio si provvede d'olio e di pane e s'avvia al palazzo incantato. Giunge, e la vecchia strega gli viene incontro e lo minaccia se non mette al guinzaglio il cane. Il giovane si lascia persuadere, smonta da cavallo, mette al guinzaglio il cane; ma subito, al tocco della bacchetta magica, è mutato in sasso.
Pensate alla disperazione del povero padre, quando dall'intorbidirsi del sangue nell'ampolla s'accorse che anche il secondo figlio era morto, o almeno si trovava in gran pericolo. Il minore dei figli lo consola e gli dice che andrà egli a liberare i fratelli, ma questa volta vuol portare con sé l'ampolla del sangue di pesce, "perché" dice, "se io morrò, voi non dovrete assistere alla mia agonia." Il padre acconsentì, baciò in fronte il figlio, e lo accomiatò. Egli era tutto fiducioso perché si ricordava le promesse del Padre dei pesci. Il giovane parte, trova la mendicante, le fa l'elemosina e segue i suoi consigli. Giunge al palazzo incantato. Può gridar la strega quanto n'ha in gola: "Legate quel cane, o cavaliere; legate quel cane, ve ne prego." Il giovane non l'ascolta, cava la spada e d'un colpo le recide il capo e intanto il suo cane s'azzuffa col mastino del palazzo incantato e lo strozza. Va avanti ardito il giovane, unge con l'olio i cardini e i catenacci del cancello che subito si apre. Appena dentro, quale spettacolo si presenta! Da tutte le parti gli vengono incontro, liberati dall'incanto, principi, duchi, conti e nobili donzelle, e la più bella di tutte è la figlia del re. Ma il giovane non è contento; cerca i fratelli. Vede in un canto due statue, assomigliano in tutto ai fratelli, si ricorda dell'ampolla, unge col sangue le statue, ed ecco farsi vivi e abbracciarlo teneramente. Cosi l'incanto fu rotto. Fatto questo, si reca, seguito da un corteo di principi, duchi, conti e nobili donzelle, al re del paese. Gli presenta la figlia liberata, e la domanda in sposa. Il re, maravigliato del valore del giovane, gliela concede e si fanno le nozze sontuosamente. Anche il vecchio pescatore e sua moglie devono esser presenti alle feste. Si mandano a chiamare e vengono, abbracciano i figli e credono morir di gioia. E neppure la vecchietta del crocicchio fu dimenticata, e, poiché il pescatore aveva già narrata la sua vita, per le bocche di tutti, volavano i ringraziamenti al Padre dei pesci.

Le nostre Parole perdute..



Leggendole oggi forse non ci suggeriscono nulla ma i nostri genitori o i nostri nonni ancora se le ricordano.
Sono le parole che stiamo perdendo: appartenenti alla tradizione mantovana, un
tempo riecheggiavano quotidianamente in queste zone.
Oggi però stanno ormai scomparendo, se siete curiosi di conoscerle, eccone alcune:


CAURIN: nome dialettale attribuito alle banconote da 2 lire ancora in corso legale nei primi anni del secolo scorso. 

CIBIBIN: termine usato per indicare persona di gentile e delicata complessione. Metaforicamente si attribuiva a queste persone la qualità di un uccelletto (detto appunto cibibin) di piccole dimensioni.

DANTSON: non c'è in realtà traduzione italiana per questo vocabolo. Esso si riferisce alla caratteristica che hanno alcune sostanze per cui sembra che mangiandole, qualche dente sia più lungo dell'altro. Questo fenomeno si verifica con cose aspre o agre.

BEFELD: parola tedesca rimasta parlata mantovana dai tempi della dominazione austriaca. Leggere in befeld (che in tedesco vuol dire ordine del giorno) significa cantarla chiara ad uno, esprimersi senza peli sulla lingua.

BRINAR: termine senza un corrispondente in italiano. Indicava quel leggero sudore che si fa dormendo, specialmente all'alba, una traduzione in italiano potrebbe essere "sudacchiare".

CITO CITO: queste parole facevano parte della terminologia postale del secolo scorso.
Chi spediva una lettera allora, poneva sulla busta della missiva la parola "cito" per indicare una pronta consegna, oppure "cito cito" per una consegna più urgente, o "citissimo" per una consegna urgentissima.

FIOMBA: questa parola era riferita ad un'usanza ormai scomparsa: quella di porre d'inverno una specie di porta fatta di tela imbottita fissata su un telaio, come complemento agli usci di legno per difendere le stanze dagli spifferi e dal freddo.

FRAOLA: termine mantovano in realtà storpiatura del tedesco "fraulein" che vuol dire signorina. La usavano i giovanotti quando volevano imitare la parlata dei soldati austriaci di stanza da noi nel secolo scorso.

PATACCA: cosa di nessun valore, equivale anche ad "imbrogliata". La patacca era il nome di un'antica moneta di poco valore.

PATAFIA: sinonimo di donna grassa, usato nell espressione dispregiativa "Madame patafia".

PAVANA: "cavaras la pavana"  fare una lunga dormita, togliersi la voglia di riposare.

QUINTANATA: giostra popolare usata a Mantova in determinate occasioni nei secoli passati. Vi partecipavano valorosi cavalieri.

SCALETTERIA: con questo termine a Mantova nell'800 venivano chiamati i caffè e le pasticcerie.

SCONSUBIA: termine che indica l'unione disordinata di molte cose.

SOLDO D'ACQUA: antica misura caduta in disuso che vigeva un tempo nel mantovano per indicare la quantità d'acqua che può passare da un foro grande un soldo ad una data velocità, detta anche "onsa d'acqua"

STRANUDILIA: la traduzione letterale sarebbe "strarnutatorio". La parola rievoca il tempo in cui era famigliare la "presina", ovvero il tabacco in polvere da annusare. Era considerato un medicamento perchè questa polvere dava luogo allo starnuto liberatorio.

STRINADA: era costituita da un bicchiere d'acqua nel quale veniva immerso un pezzo di pane tostato ancora caldo. Veniva poi dato a coloro che erano in convalescenza e che avevano bisogno di una bevanda ricostituente. Anche chiamata "acqua panada".

martedì 7 agosto 2012

I proverbi mantovani


I proverbi mantovani sono davvero molti, basta fare qualche ricerca per trovarne facilmente una discreta quantità, spesso forniti di traduzione in italiano.
Durante le mie ricerche, imbattendomi nel libro "Enciclopedia delle curiosità Mantovane" di Luigi Pescasio, ho avuto modo di visionare un metodo alternativo per la classificazione di questi frammenti di passato.
Qui di seguito verranno riportati un elenco di parole in ordine alfabetico: ad ognuna corrisponde un curioso proverbio e l'annessa spiegazione. Buona lettura!

ACQUA: "l'acqua l'è bona...s'a gh'è dentar di bon capon" l'acqua è buona se ci sono dentro dei buoni capponi, ovvero il brodo.

AGLIO: "batar la luna e sgagnar l'ai" batter la luna e masticare l'aglio, equivale all'italiano arrabbiarsi. (Questo aforisma è molto antico e forse venne diffuso quando si ignorava che l'aglio e medicamentoso e fa abbassare la pressione, quello che ci vuole quando una persona inizia ad arrabbiarsi!)

AGOSTO: "In dal més d’agost i àšan négar i dventa rós" Iperbpole per dire che il sole abbronza la pelle

AMORE: "Inamorà cme 'n bis" innamorato come una biscia. Significa che uno ha preso una grossa cotta, ma è incomprensibile il paragone con una biscia..
"Al dolor da dent près a l'amor an l'è gnint" il dolore d'amore batte persino il mal di denti. Il che è tutto un dire..

ANIMA: "Sèntras a vègnar l'anima verda" sentirsi venir l'anima verde. Vuol dire incominciare ad adirarsi.

ANNO: "L'an dal due e 'l mes dal mai" l'anno del due ed il mese del mai. Detto per precisare che una cosa non verrà mai fatta.

APRILE:  " In april le scarpe le s’büta in sal fnil." Per denotare che in aprile si può andare scalzi

ASINO: "Restar cme l'asan 'd Bartèl" restare come l'asino di un certo Bartel, significa morir di fame. Spiegazione: Bartel fu un contadino che intendeva abituare il proprio asino a vivere a poco a poco senza cibo, tutti i giorni gli diminuiva la paglia e lo strame. Gunse alla fine a non dargli più niente, ma quando, pieno di gioia convocò i conoscenti per renderli partecipi del ritrovato e li accompagnò a vedere l'asino trovò questo stecchito a gambe all'aria.

AVVOCATO: "L'è mei esr in boca al gat che in mes a du avocat" meglio essere in bocca ad un gatto che in mezzo a due avvocati. proverbio ispirato alla cattiva fama goduta dagli avvocati.

AVARO: "Bondant in casa di altar" generoso in casa altrui. La generosità in casa degli altri è sempre più facile..

BARBA: "Quand la barba la fa bianchin, lasa le done e brasa il vin" quando la barba comincia ad imbiancarsi, lascia le donne e datti al vino. Proverbio allusivo al passare del tempo, il darsi al vino è inteso come magra consolazione.

BARBIERE: "La va da barber a tosador" detto per indicare che non c'è alcuna differenza tra due persone.

BARCA: "Dai e dai, la barca la va in di pai" dai e poi dai, la barca finisce tra i pali. Il detto allude alla criticabile insistenza in una cosa che, alla fine finirà malamente.
" Doa va la barba va 'l batel"  dove va la barca va il battello. Proverbio che indica come nel più ci stia anche il meno.

BRACIOLA: " Drit cme 'n os 'd brasola" dritto come l'osso di una braciola, che notoriamente è storto. Viene detto di chi ha le gambe storte.

BRAGA: "Andar in sal caval dle braghe" andare sul cavallo delle braghe. Significa andare  sul cavallo di S Francesco, ovvero a piedi.

BRUTTO: " Brut in fasce, bèl in piazza" brutto in fasce, bello in piazza. Frase ottimistica, rivolta ai bambini poco belli da piccoli e che saranno belli da adulti.

BUCATO: " La bugata dla Leonora, bianca al sol e negra a l'ora" il bucato della Leonora, bianco al sole e scuro all'ombra. riferito alle donne che non sanno lavare bene i panni.

BURRO: "Star col cul in dal boter" stare col sedere nel burro. Riferito a chi vive agiatamente.

CAMICIA: " Chi laora gh'ha na camisa, ch' 'n laora agh n'ha dò" chi lavora ha una camicia e chi non lavora ne ha due. Detto critico che indica le ingiustizie della vita, non sempre chi lavora molto ha la fortuna che meriterebbe.

CAPPELLO: "Tacar via al capel" appendere il cappello. Riferito a chi sposa una donna facoltosa, chi cioè si è sistemato.

CHIESA: "Andar in cesa a dispet di sant" andare in chiesa a dispetto dei santi. Fare una cosa contro la volontà di qualcuno, forzare una situazione.

CHIODO: "Gras cme un ciò" grasso come un chiodo. riferito ad una persona magrissima.

COMPERARE: " A comprar car gh'è senpar tenp" per comprare caro c'è sempre tempo. Detto che si riferisce alla volontà di risparmiare.

CREDERE: " A caval ch'a suda, òm ch'a giura, dona ch'ha pians, an ghe da credar" a cavallo che suda, uomo che giura, donna che pianga non v'è da credere. Sono cioè tutte manifestazioni apparenti, che non hanno sotto una base credibile.

CRESCERE: " Al cres cme 'l formai in taola" cresce come il formaggio in tavola. Significa diminuire rapidamente. Detto umoristico che indica il contrario di quello che dice, il formaggio era un alimento molto gradito a tavola.

DENARO: " L'om sensa besi l'è 'n corp sens'anima" l'uomo senza soldi è un corpo senz'anima. Detto che mette in luce l'importanza fondamentale dell'aver denaro per un uomo.

DICEMBRE: "Prima ‘d Nadal l’è madar dopo Nadal l’è madregna". Per dire che prima di Natale la neve è madre al frumento; dopo è matrigna crudele

DOMANI: " Andar a troar dman" andare a trovare il domani. Si riferisce a chi va a letto presto, che perciò anticipa il giorno dopo.

DONNE: "Le done le gh'ha tre età: l'età ch'la gh'ha, l'età ch'la mostra e l'età ch'la dis" le donne hanno tre età: l'eta che hanno, l'età che mostrano e l'età che dicono.

ETA' DELLA VITA: "Da vint ani a s'è in dal bel, da trenta as fa 'l sarvèl, da quaranta as fa la roba, da sinquanta as fa la gòba, da sesanta pu gnint an s'cura, e da setanta as va in sepoltura", questo detto mette in luce che la vita alcuni decenni fa era più breve che oggi. A sessant'anni non si curava più nulla e a settanta si moriva.


FEBBARIO: "L'acqua 'd Favrer lìè per a 'n lèdamer" l'acqua che viene a Febbraio concima i campi.
FIASCO: " Andar via in on fiasch e tornar in na suca" andar via in un fiasco e tornare in una zucca.
Detto di chi si allontana da casa per un certo tempo e che torna senza averne tratto alcun vantaggio.

FORMICA: " Scapusar in n'os 'd formiga" inciampare in un osso di formica. Detto umoristico che si riferisce a chi è molto sbadato.

FORTUNA: "Troar Nostar Sior in dl'ort" trovare nostro Signore nell'orto, significa essere molto fortunati.

GENNAIO: "Genar fort fort, tϋt’i vèc s’ingϋra la mort. Zner fa i pont e favrer i a romp". Gennaio rigido, tutti i vecchi si augurano la morte. Gennaio mette il ghiaccio e febbraio lo dimoia

GILE': "L'ha ga un bel gilè" ha un bel gilè". Si riferisce alle donne maggiorate!

GIUGNO: "Par san Pédar (29 giugno) adio médar" Per dare a intendere che la mietitura è terminata
"Par san Gioàn (24 giugno) al most al va in gran". Cioè l’acino inturgidisce

IGNORANTE: "La vaca l'agh ha magnà i libar" la vacca gli ha mangiato i libri. Allude ad una persona che pur avando studiato è rimasta ignorante.

LUGLIO: "Vin bianc e capon in lüi e agost an i è pü bon".I nostri vini bianchi inacidiscono d’estate ed i capponi sono immaturi. La caponatura si fa in estate

MAGGIO: "Mag ‘fa l’ortolan, tanta paia e poch gran".Un maggio acquoso rovina il grano in germe, mentre se fa bello la raccolta è copiosa.

MANGIARE: "Magnar coi dent alvà" mangiare coi denti alzati. Significa mangiare con sospetto o mangiare qualcosa che non piace.

MARZO: "Par san Gregori papa la rondina pasa l'acqua" detto che ricorda l'arrivo (pasa l'acqua) delle rondini per san Gregorio  (12 marzo), cioè l'inizio della primavera.

MATRIMONIO: "Al prim an moros, al second spos, al tèers parent, al quart pu gnint". Il primo morosi, il secondo sposi, il terzo parenti, il quarto più niente. Proverbio che allude pessimisticamente al volger del matrimonio col passare degli anni.

MERCATO: "Al bon marca strasa la borsa" il buon mercato rovina la borsa. Potrebbe alludere al fatto che ad un prezzo stracciato corrisponde la merce difettosa o che con un prezzo basso si tende a comprare più del necessario.

MODENA: "Aver catà l'ors da mnar a Modna" aver trovato l'orso da condurre a Modena. Significava aver avuto fortuna, essere riusciti in un impresa difficile. Esisteva l'obbligo in tempo lontano, in alcune terre soggette a Modena, di fornire alla città un orso. Ma trovarlo era molto difficile, perciò riuscire nell impresa era considerata una vera fortuna.

MOGLIE: "Balar con la moier l'è cme magnar la polenta senza sal" ballare con la propria moglie è come mangiare la polenta senza sale. Ovvero una soddisfazione molto magra.

NIENTE: "Gnint l'è bon par i oc" niente è buono per gli occhi. In realtà niente dal latino nihil si riferisce all''ossido di zinco (nihil albunm) che si usava per curare la congiuntivite. La tradizione popolare ha trasformato questo composto in semplice nihil, cioè niente.
"Piutost che gnint l'è mei piutost" anche poca cosa è meglio di niente.

NOCI: "Grasios cme le sguse 'd nos" grazioso come il guscio di una noce. Detto umoristico che si riferisce a qualcuno sgarbato, scortese.

NOVEMBRE: "Par San Martin la levar la va al camin" per San Martino la lepre va al camino.

OTTOBRE: "Quand al piöf al dì ‘d san Gal (16 ottobre) semna l’elta e lasa andar la val" Dovendo piovere a lungo il consiglio è di seminare in terreni meno soggetti al ristagno dell’acqua.

PAMPOGNA: "General dle panpogne" generale delle pampogne. Si riferisce ad una persona di poco cervello che si da grande importanza. La pampogna è un piccolo coleottero.

PANCIA: " Creapa pansa pu tost che roba vansa" crepi la pancia piuttosto che avanzi roba da mangiare. Detto usato soprattutto durante le festività durante le quali si mangiava per ore e ore..

PAPA: "Andar a Roma sensa vedar al Papa" andare a Roma senza vedere il Papa. Significa portare avanti un affare senza concluderlo.

PARLARE: "Parlar in bon mantuan" vuol dire parlare schietto, senza sottoerfugi. come una mantovano.

PIPA: "Lasa la pipa, bandona la pepa, magna la papa" rinuncia al fumo, dimenticati le donne, e mangia cibo leggero. Una sorta di precetto salutare per la terza età.

PULCI: "Andar a dar la teta ai pulach" andare ad allattare le pulci. Significa andare a letto, il detto si riferisce ad un tempo in cui spesso nei letti si nidiavano le pulci date le scarse abitudini igieniche.

RIDERE: " Chi rid in venerdi, pains in domenica" chi ride di venerdi piange la domenica. Il venerdi era ritenuto giorno poco incline al riso in quanto dedicato alla morte di Gesù, quindi il piangere la domenica era visto come una penitenza.

SCHIAFFO: " Far sentar l'amor di sinch fradèi" far sentire l'amore dei 5 fratelli, ovvero le dita della mano.

SCRITTURA: " Mettar al negr in sal bianch" mettere nero su bianco, per iscritto.

SETTEMBRE: "Setembar, setembrin, al més ch’as fa ‘l vin" Settembre è il mese in cui si fa il vino, evento non di poca importanza nelle campagne.

SETTIMANA: "Laorar par la smana pasada" lavorare per la settimana passata, ovvero lavorare inutilmente.

STRADA: "La strada pu curta l'è quela d'inviaras subit" la strada più corta è quella da imboccare subito. Detto che mette in luce la filosofia spicciola dei mantovani.

TOSSE: "L'è mei sudar che tosar" è meglio sudare che tossire. è meglio coprirsi bene quando è freddo col rischio di sudare piuttosto che prendere freddo e quindi tossire.

UOVO: "Far l'oef fora dal cavagn" fare l'uovo fuori dal cesto. Allude al fare una cosa in modo inusuale.

VINO: " L'è mei al vin cald che l'acqua fresca" meglio il vino caldo dell'acqua fresca. Il vino troneggiava sulle tavole di campagna.

domenica 5 agosto 2012

Lettere e diari dal fronte..


Frammenti di memoria scritta dal fronte.

Grazie alla collaborazione dei nostri utenti abbiamo potuto recuperare queste preziose ed inedite testimonianze di un passato che forse molti di noi si sono dimenticati di ricordare.

La guerra, al giorno d'oggi, la conosciamo tutti attraverso filmati, documentari, film e fotografie. Ormai abituati da anni a questa overdose multimediale ci sentiamo quasi anestetizzati , non percepiamo più l'essenza di questi avvenimenti.
Per questi motivi, leggere direttamente dalle parole di chi l'ha vissuta, anche se raccontano perlopiù di momenti gioiosi e di svago è tutt'altra cosa.
Ci permette, anche solo per un breve istante, di entrare (quasi violare) nella vita di chi, quegli attimi, li ha realmente vissuti. Sono storie di persone e di vite.

 





..e dopo il rancio ottenuto è permesso ci rechiamo al teatro.

Per entrare la fatica è stata immensa, ma siamo entrati di prepotenza e senza biglietto. Dentro al teatro, promiscuità di razze e gran confusione.
La rappresentazione consiste in una commedia, con grandi colpi di spada e non riusciamo a capire una parola. In compenso ridiamo molto e facciamo un gran casino. Alle 7.30 lo spettacolo è già finito e io, Zani, Boschetti usciamo cantando fino all’accampamento.

Lunedì 3-11-XX

Altra messa in onore di defunti nel cortile del magazzino viveri molti soldati, molti ufficiali e mani e piedi gelati.
Al ritorno il capitano mi incarica di mettere i ferri a Segrè. Il mio tenente vuol vedere e leggere il mio diario, ma io mi oppongo. La posta non arriverà più. Il carro armato che abbiamo mandato per rimorchiare il camion della posta non è riuscito a trovarlo.
 
                                                                                     Martedi 4-11-41-XX

Oggi compio 20 anni.

Grande giornate per me, e grandi auguri da parte dei miei amici. Carlo mi regala un libro, Boschetti una sigaretta, e Gozzi diversi bicchieri di liquori. Auguri da parte del mio capitano e tirate di orecchie da parte degli altri ufficiali. Vent’anni ho. La più bella età che un uomo possa attraversa e dove il ragazzo si plasma per diventare uomo. Quando ho detto al mio capitano che compivo i vent’anni, un lampo di tristezza e di nostalgia ha attraversato i suoi occhi addolcendo quel suo sguardo così penetrante e deciso. Forse ricorda l’età spensierata e incosciente che è passata e non è più tornata.
La giornata passa lieta e tranquilla. Alle 7 ci rechiamo a casa della Duscia dove per festeggiare il mio compleanno ha fabbricato dei pasticcini con della ricotta, del burro, delle patate, della carne ecc. Non erano mica cattivi e ne ho mangiato abbastanza. Dopo abbiamo cantato e riso e imparato un po’ di russo. Rientriamo per la finestra onde evitare il pericolo di una punizione.





Lettera al Capitano Ferri Ferdinando alla nipote Maria Carnevali coniugata Fiori Igino:
219° BATTAGLIONE TRASPORTO MECCANICO- IL COMANDANTE: Petrovac- Bosnia- 17-06-1941 XX

Carissima Maria
Ho avuto la tua gentil letterina e sono contento d'aver incontrato, come mi dicevi, il gusto tuo.
Il mio pensiero vola sovente a te, che stai per diventare madre, che t'ho visto ed amato sin da bambina, che fosti in anni sempre la prediletta, soprattutto per me, fra le tue sorelle.
Ti auguro perciò di trovare, in seno alla tua nuova famiglia, cioè in quella che stai ora compleatando, le consolazioni e le gioie che Dio elargisce ad ogni sposa, ad ogni madre, che di questi titoli possa onorarsi.
Tu ne sei meritevole e perciò sono persuaso che il frutto del tuo grembo, comprenderà le virtù tue, che non sono poche, nonchè quelle del tuo Gino, che sono altrettante.

(il 3 Agosto 1941 in "Pescheria"  via Tullio Mozzini nasce Ezio Maria con l'assistenza della levatrice Carnevali Lina moglie del Capitano Ferri Fernando; Gino è Igino Fiori, marito di Maria Carnevali)

Da Gino non ho mai avuto scritti, nè gliene faccio addebito: salutalo tanto per conto mio e che Dio te lo conservi  a lungo.
Se è vero che il battaglione rimpatria, può darsi che faccio una scappata in pausa, a casa, allora ti darò una carezza, t'abbraccerò e bacerò come vorrei fare in questo momento.
Ciao, Mariola, tuo zio Nando.
PS Salutami i tuoi suoceri e cognati, nonchè i tuoi genitori e sorelle.

APPUNTI E BRICIOLE DA UNA GUERRA
(memorie di un soldato mantovano)


UN SOGNO CHE SI RIPETE

Un brutto sogno ricorrente, un angoscioso pensiero mi perseguita da anni. Si assopisce, scompare, poi improvvisamente riappare e mi tormenta.
Mi vedo sveglio in quella notte buia, senza luna, raggomitolato sul povero pagliericcio che ormai non è più taloe poichè i pochi fili di palia rimasti sono tritati, ridotti in polvere.
Gli altri, i miei compagni, dormono, russano, beati loro!
I pidocchi no, purtroppo. Si muovono, mordono, succhiano, mangiano, mi tormentano. Anche loro hanno fame come me! 
Fuori dall'isba, dove siamo riparati dal freddo della notte, si sente un via vai di autocarrette. Sarà il cambio per quei poveretti che sono più avanti. Poi finalmente mi addormento.
All'alba esco, e seduto lì per terra trovo un mio vecchio compagno di scuola, affranto, stanco morto che sta bevendo una specie di caffè. Mi spiega che ha lavorato tutta la notte per portare giù dei morti, non nostri mi precisa, ma croati, nostri amici di sventura. Mi indica che li hanno messi laggiù, dentro a quel baraccone, forse una stalla.
Voglio vederla ancora la morte e, muovendomi istintivamente, mi trovo davanti ad un portone sgangherato che, spingendolo con forza, si apre cigolando.
Un odore nauseabondo mi penetra nel naso. Figure informi, allineate disordinatamente per terra, fra il letame secco della stalla, stanno là, irrigidite, assieme alla morte.
Povere carni martoriate, dilaniate, violacee, gonfie, nere, putrefatte. Mosche immonde si posano su di loro, si spostano, ritornano.
Alcuni hanno ancora l'elmetto, bucato, schiacciato, fracassato, che entra nel collo, nella testa.
I corpi gonfi per la decomposizione sono strozzati dalla cinghia, dalle giberne. Poveri esseri che aspettano di finire sottoterra. Scappo senza più voltarmi, corro, corro, non so dove. Inciampo, cado e piango. Poco lontano si innalza un mesto, malinconico canto. Sono i prigionieri russi, rinchiusi entro un recinto di filo spinato, sorvegliati dai nostri.
Lassù sulla collina domina una croce di legno, e sembra abbracciare tutti quei mucchi di terra messi lì per coprire gli altri, morti prima.
Croce mia, il sacrificio dell'Uomo che su di te fu crocefisso forse è stato vano.
E la tua fine, povero ragazzo timido e smarrito, quele sarà?
E tua madre, povera donna donna tanto lontana, che cosa starà pensando in questo momento?
Noi, i croati, gli altri, tutti vittime di un triste destino, siamo qui per scannarci a vicenda. Ma per chi? Ma perchè?
Guerra, sei una maledizione, sei una vergogna!

UNA CASSA ENORME

Una cosa che mi "rompe" veramente è una cassa, una cassa enorme, di legno, con tutti gli spigoli ricoperti di ferro, per renderla più robusta e indistruttibile.
Essendo, fra tutte, la cassa più pesante ed essendo io il più giovane di età e di servizio, fatalmente la maledetta cassa è stata "rifilata" a me e con il divieto assoluto di protestare.
Peserà almeno un quintale la maledetta ed ogni volta che occorre caricarla o scaricarla chi ci deve pensare sono io. L'avrò fatto almeno trecento volte e per trecento volte ho stramaledetto quel cervellone che l'ha fatta costruire in quel modo! Almeno avesse pensato di farne fare due da mezzo quintale l'una mi avrebbe reso meno arduo e faticoso il loro trasloco. Ma lui, il cervellone, essendo ufficiale, se ne è fregato: tanto il regolamento vieta ad un superiore di fare il facchino. 
La cassa contiene, rilegata in quaranta volumi di oltre due chili ciascuno, la raccolta di tutte le dispense stampate dalla UTET (Unione Tipografica Editrice Torinese) relative alle leggi e decreti vari emanati dallo Stato e pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale.
Io non ho mai capito a che cosa possano servire per fare la guerra, certi libri!
Il mio è l'unico Reggimento di tutta l'Armata in Russia ad essersi portato dietro una così importante raccolta. Quello che è certo è che mai nessuno l'ha consulatata, mai nessuno l'ha cercata. Io, solo io, l'ho portata su e giù attraverso tutta l'Ucraina, fino a Don, dove è rimasta per sempre. Infatti, quando è cominciata la ritirata, la prima cosa che i miei amici hanno scartato è stata proprio lei: la famigerata cassa!
Forse adesso riposa in qualche scantinato del Cremlino quale cimelio di guerra a dimostrare che i solodati italiani furono "forti" ma soprattutto istruiti e colti!


MANTOVA, FINALMENTE!

Il 24 Dicembre, dopo aver attraversato mezza Europa, da nord a sud, da sud a nord, da est a ovest, arriviamo a Tarvisio e precisamente a Camporosso, per trascorrervi il prescritto periodo a contumaciale di 15 giorni e per essere sottoposti a controllo sanitario relativo ad aventuali casi di tifo petecchiale.
Per prima cosa ci fanno fare una doccia calda, quasi bollente!
è la prima dopo 18 mesi. La pelle ricomincia a respirare ed a cambiare colore. Da grigio-marrone che era diventa bianca e poi rosa. Da coccodrilli ci trasformiamo in candidi angioletti. Io non riconosco più i miei amici!
Sembra un sogno. Dormiamo il mio amico Nino ed io in una stanza riservata ai sottoufficiali dove sono solo due brande con lenzuola bianche, candide. La stufa accesa ci riscalda e ci leva di dosso tutto il freddo accumulato laggiù. I pidocchi come per incanto sono stati massacrati da infernali macchine create apposta.
Tutti morti, finalmente tutti morti! Quelli che avevo addosso, e ciò per mantenere una promessa, io li ho portati sani e salvi in Italia. Se poi altri uomini li hanno sterminati, la colpa non è mia.

Anche qui c'è la neve, ma è neve bella, soffice, vellutata, profumata, di un candore morbido e primaverile. A guardarla ti scalda di dentro. Sembra panna montata, tutta da mangiare. è neve italiana, la mia neve!
Il 6 Gennaio 1943 scendo dal treno alla stazione di Mantova. Sono a casa finalmente, anche se per un pelo!